Ai tempi del suo grande impero, Roma impose l’uso ufficiale della sua lingua a tutte le popolazioni sottomesse e cercò di diffondere anche la lingua parlata del popolo romano, lingua che si distingueva in vari gerghi a seconda dei vari ceti sociali. Questa lingua “volgare”, cioè del volgo, era assai inferiore a quella letteraria usata dagli scrittori e dalle persone colte.
L’evoluzione della lingua latina letteraria è testimoniata dalle opere dei vari autori sia dell’antichità che del Medioevo (difatti anche nel Medioevo si continuò a scrivere in latino), ma dell’evoluzione del latino parlato ovviamente non si ha alcun documento. Però fu proprio questo latino volgare che, miscelandosi coi vari linguaggi locali nei territori soggetti a Roma, diede vita alle varie lingue “romanze” (cioè derivate in qualche misura dal volgare romano e così definite dall’espressione medievale “romanice loqui”, dapprima usate solo nell’uso parlato,poi assunte anche per le opere scritte (dopo il Mille).
In Italia i primi documenti scritti in volgare risalgono ai secoli VII° ed VIII° (denominazioni di luoghi), al IX° (un indovinello), al X° (la testimonianza di alcuni contadini in una causa civile fra il monastero di Montecassino e un certo Rodelgrimo d’Aquino). Ma solo nel XIII° secolo il volgare fu usato per opere poetiche (in Umbria,in Lombardia e nel Veneto per opere letterarie di ispirazione religiosa; in Sicilia e Toscana per opere di ispirazione amorosa e civile). E’ merito soprattutto dei poeti siciliani della corte di Federico II di Svevia l’aver tentato di elaborare un volgare che avesse dignità letteraria e che fosse usato da scrittori di diverse regioni. Questo “volgare”, perfezionato dai Toscani (e particolarmente da Dante, Petrarca e Boccaccio), divenne poi la lingua letteraria italiana.